Io credo che le sole cose sicure in questo mondo siano le coincidenze.
Leonardo Sciascia
La foto di Aldo Moro scattata dalle Brigate Rosse , Roma 20 aprile 1978 – Foto Wikipedia
Durante il sequestro di Aldo Moro accadde di tutto e di più. Fatti che ancor oggi, dopo 41 anni dal rapimento, sono avvolti dal mistero. Tutta una serie di omissis che stentano a far luce su uno dei maggiori drammi, istituzionali e personali, che la Repubblica italiana ricordi.
Quando le notizie non bastano
La prigionia di Aldo Moro non è l’unica linea narrativa con cui si può seguire il rapimento. Un ruolo decisivo l’ha svolto la carta stampata, ancora medium principale degli anni ’70, nonostante l’incombente ascesa della televisione.
I quotidiani, nel raccontare il sequestro e il purgatorio di Moro, hanno alimentato paure, convinzioni, tracciato piste. I giornalisti hanno cercato di interferire con la narrazione non solo raccontandola ma, talvolta, plasmandola. Le testate si sono fatte ricettrici di appelli e dichiarazioni, colte da un brama di notiziabilità incessante durante il sequestro del Presidente della DC.
Le stesse Brigate Rosse si sono servite dei giornalisti per far arrivare i famosi comunicati provenienti dalla “prigione del popolo”, facendoli recapitare più volte nelle sedi di diversi quotidiani sparsi per la Penisola.
Dal rapimento di Aldo Moro ha avuto un insperato successo il neonato quotidiano La Repubblica. Il giornale fondato da Eugenio Scalfari si affermò grazie all’utilizzo da parte dei brigatisti della prima pagina del quotidiano per fornire una prova sulla vita di Aldo Moro, in quella che rimane probabilmente una delle istantanee più tragiche della storia repubblicana.
L’Unità guida il partito della fermezza
Durante i 55 giorni del sequestro si formarono, parallelamente, sui quotidiani e dentro il mondo politico due correnti di pensiero sulla linea da tenere nei confronti delle Brigate Rosse: fermezza o trattativa.
Trai fautori del fronte della fermezza ci furono i due maggiori partiti: la DC e il PCI, quest’ultimo, sostenuto dalla linea scelta dal quotidiano del partito. Proprio l’Unità, pochi giorni dopo il rapimento di Moro, si interrogò sul ruolo che avrebbero dovuto avere i giornalisti nella drammatica vicenda. Si legge nell’editoriale del giornale comunista, dal titolo quantomai emblematico “Dal ciclostile al teleschermo – Il caso di coscienza dei giornalisti di fronte al terrorismo”:
«Come devono comportarsi i mezzi di informazione nei confronti dei segnali, dei messaggi, della propaganda delle Brigate rosse? Pubblicarli integralmente non significa dare a gesta criminali di nemici della democrazia proprio la risonanza e l’effetto psicologico voluto dai loro autori?»
Dal ciclostile al teleschermo, l’Unità, 23 marzo 1978.
Più si fa avanti il logorante colloquio tra le Brigate Rosse e Moro da una parte, e le forze che concorrevano alla sua liberazione dall’altra, più si fa dura la linea tenuta dai maggiori quotidiani. Le lettere di Moro che provengono dalla prigione del popolo raccontano di un prigioniero sfiduciato nei confronti dei suoi colleghi di partito. Infatti, sul Corriere della Sera, viene riportata la reazione lapidaria della Democrazia Cristiana che fu: «Questa lettera non è moralmente attribuibile a Moro».
Siamo nella parte centrale di aprile, nel periodo in cui probabilmente si stava imbastendo una trattativa tra lo Stato e le BR. Dal canto loro, i quotidiani, smorzarono sul nascere qualsiasi tipo di dialogo con i brigatisti. Il 21 aprile sul Corriere della Sera l’editoriale s’intitola «La Repubblica non si baratta»; quello de La Repubblica invece «Sacrificare un uomo o perdere lo Stato»; su La Stampa si era sulla stessa lunghezza d’onda con «Perché lo Stato non può piegarsi agli assassini»; anche l’Unità scriveva: «Il prezzo vero».
Foto WIkipedia
Poteva andare in maniera diversa?
I giornali del 10 maggio raccontano sulle prime pagine quello che per i 55 giorni precedenti le redazioni stavano covando al loro interno, ovvero la notizia della morte dell’Onorevole Aldo Moro. Il Corriere della Sera titola in prima pagina «Il delitto Moro», mentre il direttore del quotidiano milanese erge il deceduto Presidente DC ad eroe moderno, dopo averlo screditato per quasi due mesi, intitolando l’editoriale «È morto perché questa Repubblica viva». Su La Repubblica lo stile è più o meno simile, con l’editoriale dal titolo «Contro il terrore le leggi della Repubblica». Nel quotidiano di riferimento per la Democrazia Cristiana, Il Popolo, è raffigurata una fotografia di Aldo Moro sorridente, con sopra l’eloquente titolo: «Aldo Moro assassinato».
La storia non si fa con i sé e con i ma. Di conseguenza non potremo mai sapere se con un atteggiamento più concessivo da parte della stampa italiana si sarebbe arrivati alla liberazione di Moro. Cosa certa è che in Italia, una nazione democratica, la libertà di informazione è un cardine della nostra Repubblica e per questo va tutelata e rispettata, soprattutto in tempi bui come sono stati gli anni ‘70.
Perché, se lo Stato italiano ha scelto di non trattare con le Brigate Rosse, di non cedere ai ricatti dei terroristi, rimanendo nel campo democratico e non accettando lo scontro alla pari con le BR, anche il mondo dell’informazione doveva rimanere tale. Perché, in tempo di guerra, i giornali smettono di informare per non aiutare il nemico; l’Italia in quei cruenti anni ha deciso di non entrare in guerra con le Brigate Rosse, ha puntato sull’unità democratica della nazione in contrapposizione alla ferocia dei brigatisti.
Fonti
Archivo storico dei quotidiani La Repubblica, La Stampa, l’Unità, Il Popolo, Il Corriere della Sera.
Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi, Milano, 1994.
Miguel Gotor, Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino, 2008.
Matteo Re, Colpevolezza ed esagerazione nell’interpretazione del terrorismo brigatista da parte della stampa italiana, Cuadernos de Filologia Italiana, Madrid, 2011, Vol. 18.