Sentiamo parlare del mondo prima di vederlo. Immaginiamo la maggior parte delle cose prima di averne esperienza. E questi preconcetti, se non siamo stati bene avvertiti dall’educazione, incidono profondamente nell’intero processo della percezione.
Walter Lippman
Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? La pelliccia della zebra è bianca con strisce nere o nera con strisce bianche? Spoiler: non esistono risposte corrette a domande del genere. Per rispondere non è possibile fare affidamento su schemi prestabiliti e immutabili. Le risposte dipendono, in gran parte, dalla visione del mondo di ciascuno di noi.
La cattiva notizia è che l’uomo ha necessariamente bisogno di schemi per comprendere il mondo circostante. Cioè gli uomini non possono fare a meno degli stereotipi. La buona notizia è che questa non è necessariamente una cattiva notizia. Gli stereotipi ci consentono di avere uno schema con cui interpretare il mondo. Nell’arco della nostra vita l’ambiente che ci circonda ci invia un’infinità di stimoli e senza uno straccio di schema sarebbe pressoché impossibile districarsi in mezzo a questa giungla. L’abbandono di tutti gli stereotipi quindi non è solo impossibile ma sarebbe addirittura controproducente.
Il problema non sta negli stereotipi in sé, ma nella loro natura e nel modo in cui li utilizziamo e questo, a sua volta, dipende dagli schemi generali che costituiscono la nostra visione del mondo. Se siamo convinti che il mondo sia retto da un codice di cui siamo in possesso, allora interpreteremo ogni avvenimento facendo appello a questo codice. Ma se invece riteniamo che “ogni uomo [sia] solo una particella del mondo, che la sua intelligenza ne cattura solo qualche frase o qualche aspetto in una rozza trama di idee”, allora riusciremo a renderci conto che il codice a cui facciamo appello è solo nostro, che deriva dalle nostre personali esperienze e dalla nostra educazione e che gli stereotipi sono solo stereotipi e devono essere modificati quando necessario.
Il segreto principale del successo dei social network nel mondo contemporaneo è dovuto, in parte, proprio alla loro capacità di sfruttare alla perfezione la naturale tendenza umana alla codificazione e alla semplificazione. Anche i social, infatti, a causa del loro stesso “codice interno” funzionano sfruttando gli stereotipi più comuni che gli individui utilizzano per comprendere l’ambiente esterno. L’importanza di questi stereotipi viene messa in luce, recentemente, da molti studi che tentano di fare chiarezza sul funzionamento dei social media e sul modo in cui essi influenzano la società. Ad esempio, il Business Insider ha pubblicato un articolo in cui riporta una ricerca dell’Università di Harvard dal titolo: «I 20 bias cognitivi che confondono le nostre decisioni».
Bias cognitivi
Per “bias cognitivo”, «si intendono casi in cui la cognizione umana produce affidabilmente rappresentazioni che sono sistematicamente distorte rispetto ad un certo aspetto della realtà oggettiva». In parole povere: i bias sono le nostre inclinazioni personali, i nostri pregiudizi. I bias ci influenzano tutti (sì, anche noi che pensiamo di avere la mente troppo aperta per poter essere influenzati) e il modo in cui lo fanno non ha quasi niente a che vedere con la razionalità (come quel tipo che ci sta simpatico o antipatico anche se non ci abbiamo mai parlato).
Quindi tutte le volte che abbiamo preso decisioni sbagliate, valutato male una situazione o creduto in notizie false, gran parte della colpa è da attribuire a questi pregiudizi invisibili che agiscono costantemente sulle nostre menti. Purtroppo, non si possono evitare facilmente (quindi, sì, continueremo a fare scelte sbagliate) ma imparare a distinguerli può essere molto utile per riconoscerli (e fermarli) quando sono in azione. Perciò ecco alcuni dei bias cognitivi più comuni, ovvero alcuni dei modi in cui inconsciamente ci inganniamo:
Bias di ancoraggio: la tendenza a sovrastimare le prime informazioni che si ottengono, spesso incomplete o inesatte, e a sottostimare quelle che si ottengono successivamente (ad esempio in una contrattazione, il primo a fare un’offerta stabilisce un range di possibilità nella mente di ogni persona);
Bias di disponibilità: la predisposizione a sovrastimare le informazioni che si hanno a disposizione (ad esempio chi sostiene che fumare non faccia male perché conosce qualcuno che è campato cent’anni pur fumando tre pacchetti al giorno);
Bias del carro del vincitore: l’inclinazione ad accogliere determinate teorie e credenze in base al numero di persone che sono persuase delle stesse idee (quante volte ci siamo convinti che un posto fosse bellissimo o un film noiosissimo senza neanche averli visti, ma solo perché tutti ci hanno detto così?);
Illusione dello schema: la propensione ad individuare schemi (anche per spiegare fenomeni non necessariamente collegati fra loro) per giungere velocemente a delle conclusioni (ad esempio l’idea che tirando i dadi uscirà 6 perché è già uscito un paio di volte di fila);
Bias di conferma: la predisposizione a prendere in considerazione soltanto le informazioni che confermano i propri pregiudizi. Questo pregiudizio, insieme all’effetto struzzo – la decisione di ignorare le informazioni che contrastano con le proprie convinzioni, nascondendo la testa sotto la sabbia – sono i principali responsabili della diffusione delle fake news;
Bias dell’angolo cieco: l’incapacità di riconoscere i propri bias. Questo è il bias dei bias, la bestia nera, ed è proprio lui ad impedirci di riconoscere l’influenza esercitata dai pregiudizi, anche nell’utilizzo dei social media!
Fonti
Lippmann, Walter. 2004. L’opinione pubblica. Roma: Donzelli.
Quattrociocchi, Walter, e Antonella Vicini. 2018. Liberi di crederci. Informazione, internet e post-verità. Torino: Codice